Il 12 giugno si svolgerà il referendum sulla Giustizia, con cinque specifici quesiti sui quali gli italiani saranno chiamati a esprimersi. Tuttavia, a saperlo sono in pochi, perché poca è stata l’attenzione mediatica rivolta dagli organi di informazione. Proviamo dunque a farlo noi, nel nostro piccolo.
Il primo quesito chiede di abrogare il decreto Severino che disciplina il regime di incandidabilità e decadenza per i parlamentari, i rappresentanti di governo, i consiglieri regionali, i sindaci e gli amministratori locali, autori di determinati reati.
Con la vittoria del sì decadrebbe l’intero provvedimento, compresa la parte relativa all’applicazione automatica della decadenza dalla carica o della impossibilità di candidatura per politici condannati a reati non colposi.
Perché siamo contrari. L’Italia ha bisogno di una politica pulita, e non permettere ai condannati di svolgere attività politica è proprio il minimo sindacale. Basta guardare in Sicilia dove stanno riprendendo forza, dopo essere usciti dal carcere, Dell’Utri e Cuffaro. Se fosse cancellato il decreto Severino sull’incandidabilità e decadenza dei condannati, le conseguenze sarebbero gravissime perché potremmo trovarci di fronte a persone riconosciute colpevoli di reati di mafia che potrebbero restare tranquillamente ai loro posti nelle istituzioni.
Il secondo quesito concerne una serie di limitazioni all’applicazione delle misure cautelari. Ricordiamo che la custodia cautelare è la limitazione della libertà a cui un imputato può essere sottoposto prima della sentenza. Non si tratta solo della custodia cautelare in carcere ma anche degli arresti domiciliari, dell’obbligo di firma, del divieto di avvicinamento, etc. etc.
Attualmente i casi che giustificano la misura cautelare sono il pericolo di fuga, l’inquinamento delle prove, o quando c’è il pericolo di reiterazione dello stesso delitto. L’ultimo è il criterio più utilizzato.
Se vincesse il sì, potranno essere sottoposti a misura cautelare solo coloro nei confronti dei quali sussiste il concreto e attuale pericolo che commettano gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale, ovvero delitti di criminalità organizzata.
Perché siamo contrari. Il rischio è quello di neutralizzare l’istituto della custodia cautelare, che ha come intento quello di evitare la reiterazione dei reati, dando un duro colpo al buon funzionamento del sistema, eliminando alla radice la possibilità di avere una “Giustizia giusta”. Il quesito non interviene, infatti, sui possibili abusi della custodia in carcere, ma opera una significativa restrizione del campo di applicazione della stessa e delle altre misure cautelari, sia coercitive che interdittive. L’indebolimento della misura finirebbe per limitare la lotta alla corruzione, in quanto la tipologia di reato sarebbe stralciata dalla fattispecie. La limitazione riguarderebbe anche l’allontanamento dalla casa familiare, misura prevista a tutela di tutte le donne che denunciano un coniuge violento, oppure il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, per quanto riguarda la perpetrazione di atti persecutori (stalking). Oppure pensiamo ad uno spacciatore che viene colto in flagrante con 1 chilo di cocaina, in dosi, davanti la scuola. Se dovesse passare il sì non potrà più essere arrestato.
Il terzo quesito riguarda la separazione delle funzioni giudicanti e requirenti dei magistrati.
Oggi i magistrati possono passare da una funzione all’altra, ma con delle limitazioni molto pesanti e per non più di quattro volte nel corso dell’intera carriera.
Se vincesse il sì, il magistrato sarebbe costretto a scegliere all’inizio della carriera la funzione giudicante o requirente, per poi mantenere quel ruolo durante tutta la vita professionale.
Va segnalato inoltre come quello in esame sia un falso problema, visto che sono pochissimi i casi di passaggio dall’uno all’altra funzione (secondo gli ultimi dati, il passaggio ha riguardato rispettivamente lo 0,21% dei requirenti e lo 0,83 dei giudicanti).
Perché siamo contrari. La separazione delle funzioni rischierebbe di incidere in primis sul sistema delle tutele e delle garanzie difensive. Ricordiamo che ad oggi il ruolo del pubblico ministero è connotato da un peculiare carattere garantista, in grado di evitare effetti distorsivi, potenzialmente derivanti dall’inquadramento professionale della Polizia giudiziaria in organismi gerarchicamente organizzati e che rispondono al potere esecutivo.
In realtà questo quesito è prodromico al vero obiettivo dei proponenti, ovvero la separazione delle carriere, alla stregua di ciò che avviene in altri paesi come USA e Francia.
Perché è molto pericolosa questa visione? Perché in USA e Francia le Procure dipendono dalla politica. Vi immaginate cosa potrebbe succedere se un Ministro o un partito politica possa decidere quali indagini fare e quali no? Chi indagare e chi no? Mantenere lo status quo è una garanzia di democraticità del sistema che è democratico proprio perché totalmente separato dai voleri della politica.
Il quarto quesito riguarda la valutazione della professionalità dei magistrati, e chiede che anche la componente laica del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione e dei Consigli giudiziari – ossia avvocati e talvolta professori universitari in materie giuridiche – partecipi alle discussioni e alle valutazioni sulla professionalità dei magistrati.
Votando sì, avvocati e docenti della componente laica avrebbero diritto di voto in tutte le deliberazioni del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei Consigli giudiziari.
Alternativa è a favore di questo quesito ma dobbiamo anche far notare tutta l’ipocrisia dei proponenti (in primis Lega) che hanno votato all’interno della riforma dell’ordinamento giudiziario una norma per cui gli Avvocati all’interno dei consigli giudiziari hanno un voto unico cumulativo e solo sulle valutazioni dei magistrati in cui vi è una segnalazione da parte del Consiglio dell’Ordine.
Il quinto quesito riguarda l’elezione dei membri togati del Csm, e la richiesta dei proponenti è l’abrogazione della Legge n.195 del 24 marzo 1958, sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura, limitatamente alla parte di testo che disciplina le modalità di candidatura di un magistrato a membro del Csm. Con la disciplina attuale, se un magistrato si vuole proporre come membro del Csm deve raccogliere almeno 25 firme di altri magistrati a sostegno della sua candidatura.
Votando sì, decadrebbe l’obbligo della raccolta firme.
Di per sé la modifica non è negativa ma, per chi conosce le dinamiche delle elezioni dei membri togati del CSM, è sostanzialmente inutile.
Infatti il problema del correntismo giudiziario (simile al correntismo politico nel CSM) lo si risolve con la nostra proposta che abbiamo fatto in Parlamento e che è stata bocciata dalla maggioranza pro-Draghi, ovvero il sorteggio temperato. Prima vengono sorteggiati un numero di magistrati pari al quintuplo dei posti e dopo, all’interno di questi, si svolgono le elezioni.