L’America porrà fine al sogno di Zelensky? Il consenso pro-guerra sembra indebolirsi – di Thomas Fazi

venerdì 21 Ottobre 2022

Pubblichiamo anche qui un articolo di Thomas Fazi comparso su unherd.com, che dà conto in modo preciso di una dialettica che si sta aprendo negli Stati Uniti e che dischiude nuovi spiragli in seno all’establishment e all’opinione pubblica nordamericana in merito alla guerra in Ucraina. È opportuno conoscere punti di vista che potrebbero creare un nuovo scenario e per questo li offriamo ai nostri simpatizzanti e lettori. Buona lettura! (La Redazione)

Benché i droni “kamikaze” piovano su Kiev, l’umore sull’Ucraina sta cambiando nettamente negli Stati Uniti. Tra maggio e settembre, la quota di americani estremamente o molto preoccupati per una sconfitta ucraina è scesa dal 55% al 38%. Tra i repubblicani e gli indipendenti di tendenza repubblicana, il 32% afferma che gli Stati Uniti stanno fornendo troppo sostegno alla guerra, rispetto al 9% di marzo.

Ma anche all’interno dell’establishment americano stanno emergendo fratture. L’elenco dei media e delle figure politiche di alto profilo che stanno iniziando a mettere in discussione la saggezza della strategia statunitense nel conflitto si allunga ogni giorno di più.

Perché l’amministrazione statunitense continua a versare decine di miliardi su una guerra che sta devastando l’Ucraina e provocando migliaia di morti (e provocando enormi danni collaterali a livello globale) quando, secondo il Washington Post, «in privato, i funzionari statunitensi affermano che né la Russia né l’Ucraina sono in grado di vincere la guerra a titolo definitivo»? Se le cose stanno così, perché gli Stati Uniti stanno prolungando lo spargimento di sangue e la distruzione, impegnandosi a sostenere l’Ucraina “per tutto il tempo che dovesse servire“, anziché lavorare per una soluzione diplomatica che, escludendo la guerra nucleare, è comunque l’unico risultato possibile? La follia di questa politica è diventata ancora più evidente nelle ultime settimane, poiché i combattimenti da entrambe le parti hanno continuato a intensificarsi pericolosamente, con lo stesso Biden che ha avvertito della possibilità molto reale di un “Armageddon” nucleare.

Come ha scritto Josh Hammer su Newsweek, è giunto il momento per gli Stati Uniti di abbandonare la loro posizione eccessivamente semplificata di sostenere il sogno di Zelenskyy di riconquistare “ogni centimetro quadrato di territorio nel Donbas e in Crimea dal suo avversario dotato di armi nucleari, apparentemente a prescindere dal costo per il contribuente statunitense”. In questa fase del conflitto, osserva Hammer, non è nell’interesse dell’America sostenere tutte le rivendicazioni territoriali irrealistiche dell’Ucraina. Piuttosto che una guerra semipermanente e una destabilizzazione, ciò che serve è “de-escalation, distensione e pace”. Mike Mullen, che era in carica quale presidente dello Stato Maggiore Congiunto per George W. Bush e Barack Obama, l’ha messa giù in maniera ancora più schietta: “Come è tipico di ogni guerra, essa deve pur finire, e di solito ci sono negoziati collegati a tutto ciò. Prima sarà meglio sarà, per quanto mi riguarda”.

Ma questo, ovviamente, significa affrontare la posizione assolutista di Zelenskyy, che include il rifiuto di venire al tavolo dei negoziati fino a quando Putin non sarà rimosso dal potere, mentre continua a pretendere l’adesione immediata dell’Ucraina alla Nato e si rifiuta di scendere a compromessi sulle regioni recentemente annesse di Luhansk e Donetsk, o perfino sulla Crimea. È interessante notare che le stesse preoccupazioni sono state espresse anche da David E. Sanger, il principale corrispondente da Washington per il New York Times, tradizionalmente favorevole alla guerra, che ha scritto: “Nessuno nell’amministrazione [Biden] vuole suggerire, in pubblico o in privato, che il governo del presidente Volodymyr Zelenskyy dovrebbe evitare di scacciare le truppe russe da ogni angolo dell’Ucraina, fino ai confini che esistevano il 23 febbraio, il giorno prima dell’inizio dell’invasione. Ma a porte chiuse, affermano alcuni diplomatici e funzionari militari occidentali, questo è esattamente il tipo di colloquio che dovrebbe avvenire”.

Una possibile soluzione in questo senso è stata articolata da Elon Musk – lui stesso membro dell’establishment statunitense, sebbene eccentrico – in un tweet estremamente controverso in cui ha offerto la sua idea per un accordo di pace, che prevedeva la ripetizione dei referendum sull’annessione sotto Supervisione delle Nazioni Unite nelle aree occupate dalla Russia; il riconoscimento della sovranità russa sulla Crimea annessa; il tutto dando all’Ucraina uno status neutrale.

La proposta di Musk fa eco al piano di pace avanzato da Henry Kissinger all’inizio di quest’estate. Kissinger ha avvertito che se i negoziati non fossero ripresi entro la fine di luglio, avremmo rischiato “sconvolgimenti e tensioni che non saranno facilmente superati”, proprio come quelli che ora si sono materializzati.

Diversi analisti militari concordano sul fatto che il conflitto ha raggiunto una fase in cui la situazione potrebbe facilmente sfuggire al controllo, indipendentemente da ciò che la leadership politica o addirittura militare dei due paesi potrebbe desiderare. Sottolineano il fatto che durante la crisi missilistica cubana del 1962, la guerra nucleare fu evitata non solo grazie all’abile diplomazia, ma anche, e forse cosa ancora più importante, per mera fortuna, come quando un capitano di sottomarino sovietico, che credeva che la guerra fosse iniziata, era deciso a sparare il suo siluro nucleare contro le navi statunitensi, ma venne convinto del contrario da un collega ufficiale; o quando le forze statunitensi a Okinawa ricevettero un ordine errato di lanciare 32 missili nucleari su obiettivi russi, anche qui fermati solo grazie a un capitano dal pensiero rapido.

La lezione dell’unico scontro nucleare che il mondo abbia mai conosciuto è quindi chiara: più a lungo dura la tensione, maggiore è il rischio di incidenti ed errori di calcolo. Da qui la necessità di una distensione. Come ha osservato David Ignatius sul Washington Post: “I leader devono pensare ora con la stessa combinazione di tenacia e creatività che il presidente John F. Kennedy ha mostrato durante la crisi dei missili cubani nel 1962. Ciò significa tracciare una linea ferma: Kennedy non ebbe mai tentennamenti sulla sua richiesta che i missili sovietici venissero rimossi da Cuba, ma significa anche cercare modi per ridurre l’escalation”.

Ignatius ha anche evidenziato una scomoda verità: che il rifiuto di impegnarsi in qualsiasi processo diplomatico, finora, è arrivato dall’Ucraina, e ancor più dagli Stati Uniti (e dal Regno Unito), non dalla Russia. Al contrario, Ignatius ha ricordato che “la Russia era pronta a una ‘soluzione pacifica’ nei negoziati mediati dalla Turchia a Istanbul a fine marzo, ma che l’Ucraina e l’Occidente si erano tirati indietro”. Poi, ad aprile, secondo diversi funzionari statunitensi, Russia e Ucraina avevano concordato un accordo provvisorio per porre fine alla guerra, solo che Boris Johnson sarebbe volato a Kiev per porre fine ai negoziati, secondo fonti filo-occidentali ucraine. Ciò solleva diverse domande: perché i leader occidentali hanno voluto impedire a Kiev di firmare un accordo apparentemente buono con Mosca? E quante vite avrebbero potuto essere salvate, da entrambe le parti, se i colloqui di pace non fossero stati fatti deragliare?

Detto questo, Ignatius, insieme ad altri, interpreta il recente discorso di “Armageddon” di Biden come un segnale che il presidente potrebbe finalmente orientarsi verso la necessità di una soluzione diplomatica. Il fatto che Biden non abbia escluso la possibilità di incontrare Putin alla riunione del G20 del mese prossimo a Bali – un’opzione che non era disposto a considerare fino a poco tempo fa – indica anche un potenziale cambio di strategia per conto dell’amministrazione statunitense.

Ma se si tratta di questo, molto dipenderà dalla capacità di Biden di resistere alle potenti forze del complesso militare-industriale statunitense che spingono per la continuazione e l’escalation della guerra (come ha dovuto fare Kennedy durante la crisi dei missili cubani). Alcuni suggeriscono addirittura che gli attacchi sempre più sfacciati contro la Russia – il recente bombardamento del ponte che collega la Russia continentale alla Crimea, probabilmente per mano del servizio di sicurezza SBU dell’Ucraina, per esempio – potrebbero essere dei tentativi della fazione filo-bellica americana di intensificare il conflitto.

Dopotutto, quanto è realistico, si chiede l’ex membro del Congresso Ron Paul, presumere che il governo ucraino e i servizi di intelligence siano stati in grado di condurre queste operazioni all’insaputa dell’America? I casi sono due: o l’amministrazione Biden è pienamente d’accordo con queste azioni e sostiene l’escalation; oppure ci sono elementi che lavorano attivamente contro l’amministrazione per far deragliare qualsiasi soluzione diplomatica: di certo non sarebbe la prima volta che sezioni dell’intelligence statunitense diventino canaglia. Naturalmente, c’è anche una terza possibilità: gli Stati Uniti hanno perso completamente il controllo degli ucraini, che ora sono impegnati in attività terroristiche alle spalle degli Stati Uniti; non sarebbe nemmeno la prima volta che accade, se dovessimo considerare il ruolo dell’America nella nascita di al-Qa’ida, per esempio.

Tutte e tre le prospettive sono ugualmente terrificanti. In ogni caso, il consenso pro-guerra si sta indebolendo e ciò rappresenta un’opportunità. Ora è il momento per tutti coloro che credono in una soluzione diplomatica al conflitto di parlare apertamente e di fare pressione sui loro leader per fermare la follia.

Fonte: https://unherd.com/2022/10/will-america-end-zelenskyys-dream/?fbclid=IwAR1rLwOXJ86vsTmF-HdinxEWYEIgSRTtCP8xJFR3IrisNuap_oVDx7DlJZQ

Autore: Thomas Fazi.

Traduzione in italiano a cura di Pino Cabras.

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